Nuovo protocollo tra le parti sociali: online il video sull’organizzazione aziendale

Ancora emergenza Covid-19

Turnazione, smart working, rimodulazione dei livelli produttivi: nel video online da oggi sul portale Inail, le indicazioni per l’organizzazione aziendale nella fase di ripartenza.  È l’ottavo capitolo della serie, composta da 14 brevi filmati, che illustra i contenuti del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure
per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus negli ambienti di lavoro”, sottoscritto tra le parti sociali il 14 marzo e integrato il 24 aprile scorso. Il documento contiene previsioni di carattere generale dirette a tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori nello svolgimento delle attività produttive.
 
Lo smart working, che nel corso del lockdown ha garantito la prosecuzione di diverse attività produttive, continua a essere “favorito anche nella fase di progressiva riattivazione del lavoro, in quanto utile e modulabile strumento di prevenzione”, si legge nel Protocollo. Sarà il datore di lavoro a garantire supporto al lavoratore e alla sua attività fornendo assistenza nell’uso delle apparecchiature e favorendo la rimodulazione di tempi di lavoro e pause.
 
Il distanziamento sociale si attua anche attraverso la rimodulazione degli spazi di lavoro, l’individuazione di soluzioni innovative per riorganizzare le postazioni e l’introduzione di turni e flessibilità oraria per ridurre il numero di presenze in contemporanea nei luoghi di lavoro. Elementi da considerare per evitare aggregazioni sociali anche in relazione agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa, in particolare riguardo all’uso dei trasporti pubblici.

FONTE: inail.it

Oms, burn-out fenomeno di origine occupazionale, inserito in ICD-11

L’Oms ha comunicato di aver ufficialmente riconosciuto la sindrome da burn-out come fenomeno di origine occupazionale e di averla appena inclusa nella revisione della classificazione internazionale delle malattie – International Classification of Diseases (ICD-11) .

Dalla nota della stessa Organizzazione mondiale della sanità del 28 maggio 2019 si apprende che il burn-out è stato catalogato nella Icd-11 alla voce Fattori che influenzano lo stato di salute o il contatto con i servizi sanitari sotto gruppo Fattori che influenzano lo stato di salute. Ovvero tra gli avvenimenti non classificati come malattia ma capaci di indurre la persona a contattare i servizi sanitari.

Con tale definizione: “Il burn-out è una sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo.

È caratterizzato da tre dimensioni:

sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico;
maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, o sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro;
ridotta efficacia professionale.

Il burn-out si riferisce specificamente ai fenomeni nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita”.

Genere e sesso incidono sui rischi di salute e sicurezza legati alla professione svolta?

In Italia, con l’emanazione del D.Lgs. 81/08 si introduce una concezione nuova di salute e sicurezza sul lavoro, non più ”neutra” ma in grado di considerare le “differenze di genere” in relazione alla valutazione del rischio e alla predisposizione delle misure di prevenzione. Nella norma viene sottolineato come la probabilità che si produca un’alterazione dello stato di salute non dipende solamente dalla natura e dall’entità dell’esposizione ma anche dalle condizioni di reattività degli esposti.

Vengono così individuate delle categorie di lavoratori che potrebbero essere maggiormente suscettibili ai rischi lavorativi in base ad alcuni fattori quali l’età, il sesso, l’origine etnica, la posizione contrattuale e le disabilità.

Però,a fronte di una legge che stabilisce la tutela della salute nei luoghi di lavoro orientata al genere, le indicazioni richiamate nel D.Lgs 81 non sempre risultano di facile applicazione.

L’approccio di genere qui considerato prende in considerazione diversi fattori che didatticamente vengono ripartiti in due gruppi, definiti “sesso” e “genere” (purtroppo la ridondanza del termine crea molta confusione). Il “sesso” si riferisce alle differenze biologiche (anatomiche, ormonali e fisiologiche) che contraddistinguono l’essere maschio o femmina. Il “genere” si riferisce alla costruzione sociale della mascolinità e della femminilità riferendosi a tutti i condizionamenti socio-culturali che portano a definire ruoli lavorativi, sociali e familiari diversi per uomini e donne. 

Come inserire i fattori inerenti al “sesso” e “genere” nella valutazione del rischio occupazionale?

Per esempio, tra uomini e donne esistono numerose differenze nell’assorbimento, nel metabolismo e nell’eliminazione degli agenti chimici che, a parità di esposizione, possono modificare il rapporto dose/effetto, diversamente conosciuto come “soglia di esposizione”. I limiti espositivi sono stati finora elaborati in modalità “neutra” e sebbene siano cautelativi – molto al di sotto della dose in grado di indurre danni – non rappresentano soglie universalmente valide, potendo variare in base al sesso, a fattori genetici e agli stili di vita. 

Altro aspetto organizzativo che dovrebbe essere considerato riguarda il lavoro domestico e di cura familiare, spesso sbilanciato tra il genere femminile e maschile, creando, soprattutto per le donne, un doppio carico lavorativo che, in Italia, sopperisce all’assenza di un idoneo sistema di welfare.

Da quanto fin qui detto, risulta evidente che i presupposti metodologici in uso per promuovere la salute e la sicurezza occupazionale necessitino di un’ampia revisione critica per promuovere l’equità di genere. 

Di Sarcina Antonio

Le donne e le difficoltà nel lavoro

Oggi l’Italia si colloca al penultimo posto, davanti solo a Malta, nella classifica dei paesi europei attivi nella riduzione della disoccupazione femminile ed i dati mostrano con chiarezza questa realtà: nel febbraio 2012, il tasso di occupazione delle donne tra i 15 ed i 64 anni si è attestato al 46,7% (67,2 per gli uomini) ed il tasso di disoccupazione al 10,3% (8,6% per gli uomini). Il divario con il resto dell’Europa è enorme, se si pensa che il tasso medio europeo di occupazione femminile è pari al 58,5%, quasi 12 punti in più. Un altro elemento da rilevare è il tasso di inattività, che ha raggiunto il 46,8% per le donne (contro il 26,5% degli uomini). Sono persone che non solo non hanno un lavoro retribuito, ma che non lo cercano neanche più, né stanno studiando o seguendo percorsi di formazione. Queste donne hanno semplicemente rinunciato, in molti casi esasperate dalle difficoltà, oppure sono state assorbite dal lavoro nero.

Gli ostacoli per le donne ad inserirsi e mantenere il lavoro sono molteplici. Un fattore che troppo spesso favorisce l’uscita dal mercato del lavoro è la maternità, basti pensare che il 30% delle madri interrompe il rapporto di lavoro perché costretta a sostenere carichi familiari eccessivi, contro il 3% dei padri. La nascita di un figlio è spesso un periodo della vita in cui le donne desiderano chiedere un part-time per poi poter rientrare a tempo pieno senza per questo essere penalizzate in termini di carriera. Nel corso del tempo, il lavoro part-time femminile è cresciuto notevolmente ma solo nella forma di part-time involontario, questo significa che spesso non si tratta di una scelta ma viene subìto per mancanza di alternative lavorative.

In conclusione,è dato noto che la presenza consistente di lavoratrici altamente qualificate e con elevati titoli di studio non ha rotto definitivamente né la ‘segregazione orizzontale’, che concentra di più le donne in determinati settori e occupazioni, né incrinato il cosiddetto ‘soffitto di cristallo’, la barriera invisibile che ostacola gli avanzamenti di carriera per le donne e impedisce loro di raggiungere i livelli più alti – Fonte: www.lavoro.gov.it .

Di Antonio Sarcina